Saturday 14 January 2012

INTERVISTA LINDRO

Il documentario cult di Alessandro Negrini: italiano vive da anni in Irlanda

’Paradiso’, tolleranza a passo di tango

http://www.lindro.it/Paradiso-tolleranza-a-passo-di,4242#.TsJqsvTz2so

Una delicata vicenda dedicata alla musica e alla danza ambientata in un quartiere-ghetto di Derry
Derry, o Londonderry, è una città divisa. Ha due nomi, due anime, e un fiume che più che attraversarla, la spezza a metà. Su una sponda vivono i cattolici, sull’altra i protestanti, due comunità che la sanguinosa guerra civile nord-irlandese ha ineluttabilmente allontanato. Come spesso accade per i luoghi che sono sopravvissuti a un evento traumatico, questa cittadina dell’Irlanda del Nord – la seconda per grandezza dopo Belfast, ha oggi un’aria spavalda - allegra e malinconica insieme, e lo spirito di chi vuole lasciarsi dietro un passato che è forse ancora troppo vicino per essere dimenticato.
Proprio nel cuore di Derry poi, a tenere vivo il ricordo di trent’anni di violenza settaria, esiste un quartiere chiamato Fountain, che prima dei troubles era vivace, brulicante di pub, ristoranti e sale da ballo. Oggi è un paradosso urbano, un piccolo agglomerato circondato da mura dietro cui continuano a vivere poco più di trecento persone, quasi tutte anziane: quel che resta dell’unica enclave protestante del centro di Derry, divenuto zona neutrale dopo la fine del conflitto.
E’ in questo luogo altamente simbolico che Alessandro Negrini, regista torinese stabilitosi a Derry da qualche anno, ha girato Paradiso, uno splendido documentario commissionato dalla BBC che continua a raccogliere recensioni eccellenti e ad aggiudicarsi premi nei maggiori festival di tutto il mondo – dall’India al Bangladesh passando per l’Italia e l’Ungheria. Il film racconta – o forse è meglio dire ’cattura, la piccola grande vicenda di Roy Arbuckle e degli altri Signetts, una band di ultrasettantenni che decide di riunirsi per tornare a suonare sul palco del Mem, il locale in cui prima della guerra i cittadini di Derry appassionati di danza si ritrovavano e insieme, senza fare caso a questioni di nascita o religione, semplicemente, ballavano.
Alessandro Negrini racconta allora di come ’Paradiso’ sia il frutto di un errore di percorso, del suo amore per la terza età, del lavoro di regista in Irlanda del Nord e del perché ancora non abbiamo potuto vedere il suo documentario sugli schermi italiani.

In una intervista radiofonica di qualche tempo fa avevi spiegato che quella di libertà è un’idea fondamentale per Paradiso. Trovo molto interessante e coraggioso che anche tu, come regista, ti sia preso la libertà di fare un film che ha per protagonisti un gruppo di anziani e ambientato nelle delle sale da ballo, una scelta che non dev’essere stato facile far digerire ai produttori.
Io nutro una passione gigantesca per gli anziani, che sono come dei libri umani che ci dimentichiamo di aprire. Nel caso specifico di Paradiso ebbi la fortuna di scoprire – o essere scoperto - ancora non l’ho capito, da queste due vecchiette straordinarie (Kathleen e May, due delle protagoniste nonché muse ispiratrici del film, NdR) che mi hanno insegnato che occorre un sacco di tempo per diventare giovani. E infatti io prendo lezioni da loro continuamente, vado a trovarle tutte le settimane. E poi c’è il fatto che io sono cresciuto nelle sale da ballo. Mio nonno gestiva in un paesino del ferrarese un teatro cinema che nel fine settimana si trasformava in balera. Poi, una volta trasferitomi a Torino dopo il divorzio dei miei genitori, cominciai a seguire mia mamma nelle sale da ballo della città. E’ per colpa sua sono diventato un nottambulo, mi sono lasciato rapire da questi profumi e queste atmosfere ktich. In fondo Paradiso è anche un tributo a questo mondo, che in Italia sta scomparendo - o forse è già scomparso.”
Com’è iniziata la storia di Paradiso?
L’origine di tutto il film è un errore, e questo dimostra come a volte gli errori abbiano un valore enorme. Un giorno, poco dopo essere arrivato a Derry, mi persi e imboccai quel passaggio pedonale che si vede all’inizio del film e che porta all’interno del Fountain. Pensavo fosse una scorciatoia, invece scoprii che si trattava di un labirinto chiuso dal quale potevo uscire solo tornando al punto da cui ero arrivato. E così ho scoperto questo mondo, questa piccola prigione a cielo aperto, invisibile, e mi sono incuriosito. Ho voluto capire chi viveva in questa prigione. Ho cominciato a fare ricerche, sono andato a bussare alle porte del Fountain e una di queste porte fu aperta da Kathleen e May, che mi invitarono ad entrare e non capivano perché un italiano andava a far domande sul loro quartiere. Quel giorno scoprii la loro passione per il ballo – per il tango anche, che poi è diventato nella mia testa il tempo del film, cioè il movimento di queste due entità che si avvicinano e si allontanano senza toccarsi veramente mai.

Immagino che ti abbiano descritto spesso come un cervello in fuga, ti identifichi in questa definizione?
Questa cosa dei cervelli in fuga mi viene in effetti chiesta in continuazione e non so mai cosa rispondere, perché in realtà è il mio cervello che a volte fugge da me – impazzisce e mi fa fare delle cose strane come diventare un regista appunto, che è un lavoro assolutamente non normale. E non so nemmeno se posso definirmi un regista in fuga, perché io nasco come regista all’estero, anche se in realtà adesso sto lavorando anche in Italia, con una coproduzione. ’Cervelli in fuga’ secondo me viene utilizzato spesso in maniera retorica. Non so se ci voglia così tanto coraggio a fuggire, diciamo che ci vuole anche tanto coraggio a restare. Non mi sento di farmene un vanto. Io sono fuggito dall’Italia prima che diventasse invivibile – e già la vedevo invivibile allora.. penso comunque che alla fine tutto ricada in quella che è la tua natura, probabilmente se fossi nato a Derry, sarei fuggito da qui.”

A livello professionale, quali sono le differenze che hai notato fra la realtà italiana e quella del Regno Unito?
“La differenza sul campo è gigantesca rispetto all’Italia, soprattutto a livello di metodo. Il mondo del documentario è forse un po’ diverso, però le notizie che arrivano dal nostro paese sono allarmanti. Un mio amico che fa il regista a Roma, mi ha detto che lì per lavorare devi andare alle feste. E poi l’altra grande differenza è la mancanza di soldi per far cinema. In Italia devi cercare i soldi quasi totalmente all’estero, non essendoci più la figura del produttore-mecenate. Oggi il produttore va a cercare i soldi a destra e a manca, ed è così anche qui, ma con una dinamica molto più seria, almeno per quella che è stata la mia esperienza.
Comunque, approssimazione è la parola che più mi viene in mente. In Italia è tutto contaminato dalla televisione, va tutto al ribasso. Anche qui devi fare l’audience, eppure lo sconosciuto Alessandro Negrini viene commissionato e il suo film va in onda di lunedì sera alle su BBC 1. Quando ’Paradiso’ ha cominciato a farsi conoscere, la Rai mi ha contattato e mi ha chiesto di mandarlo in onda... gratis. Esiste questa cultura del non pagare, di giocare al ribasso.
Un’altra differenza è che qui quando inizi non devi avere la raccomandazione. Hai la possibilità di proporre le tue idee – che poi magari vengono bocciate, però almeno ti viene consentito di fare il primo passo.

E’ stato così anche per Paradiso?
Sì, e ovviamente non è stato facile. Io sono andato a proporre un film con degli anziani come protagonisti, su un ghetto che probabilmente morirà tutto, quindi un’idea tutt’altro che commerciale. E poi ho dovuto anche convincerli che il film sarebbe stato divertente. Non è stato facile, ma alla fine ha funzionato. Mentre in Italia o bluffi o fai il millantatore.
In questo periodo stai viaggiando molto per presentare il tuo film..
E’ vero, mi sento un po’ zingaro. Le prossime destinazioni saranno Roma e poi gli Stati Uniti Sto viaggiando anche per il progetto nuovo.

Si può dire qualcosa su questo tuo nuovo progetto?
Guarda, sono un emigrato e mi porto dietro anche tutti i cliché dell’emigrato, sono molto scaramantico.. si tratta di due coproduzioni, ma non ti dico di più!

Che consiglio daresti al tipico giovane regista in erba?
In realtà io stesso mi sento sia giovane sia in erba, e rappresento un pessimo esempio perché non ho fatto la scuola di cinema, ho imparato tutto sul campo. E nella mia vita pensavo di fare tutt’altro. Ovviamente ho sempre amato il cinema, mio nonno aveva questo piccolo cinema, ho mangiato pane e film. Però non ci pensavo, non mi sentivo all’altezza. Però il consiglio che posso dare è di guardare i film, conosco tanti giovani registi che non conoscono il cinema.. essere meno ossessionati con il proprio ombelico e di perdersi un po’.

Quali sono i maestri che ti ispirano e a cui fai riferimento quando lavori?
“Il mio lume – e mi sembra quasi offensivo tirarlo giù dal piedistallo, è Fellini. Poi c’è un regista norvegese che adoro e che ho conosciuto di persona. Si chiama Knut Erik Jensen e anche lui ha fatto un film meraviglioso su dei vecchietti, si chiama ’Cool and Crazy e parla di un coro di ottantenni che vive nel circolo polare artico. Lui è un regista che amo perché guardando i suoi film ti rendi conto che non cerca e scopre le persone solo per filmarle, c’è un grande amore che traspare dai suoi lavori. Poi i punti di riferimento cambiano come cambiano i gusti per le donne o per le città.

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